Inside the box

La folla ballava selvaggia e incosciente al ritmo del beat.

La savana si estendeva all’orizzonte dove le fiere venivano stanate dalla strobo che lampeggiava per un istante su quell’attimo di vita frenetico e irripetibile.

Il dancefloor era popolato da ogni sorta di animale. C’era una giraffa lunga lunga con un sacco di gioielli intorno al collo e alle dita. C’erano le scimmie sguaiate e moleste, mentre l’orso dalla mole imponente stava seduto in un angolo a sudare, sorseggiando il suo nettare alcolico.

Era come se stessero festeggiando per il primo giorno di pioggia dopo una lunga siccità.

I locali avevano finalmente aperto i battenti dopo un’interminabile periodo di inattività che aveva messo in ginocchio numerosi gestori.

A Gino era andata bene. Lui cadeva sempre in piedi pronto a fronteggiare ogni nuova avversità.

Non importava quante volte cadevi quello che contava per lui era sapersi rimettere in piedi.

Magari zoppicando ma eretti e pronti all’azione.

La vita non era stata generosa con lui. Era riuscito a sfruttare un paio di situazioni a suo favore e adesso navigava con il vento in poppa.

Nel periodo di chiusura aveva già avuto modo di intessere un’importante rete di convenzioni con le realtà più quotate nell’ambito della movida torinese.

Era uno che non se ne stava con le mani in mano soprattutto se erano gli altri a imporglielo.

Non sopportava i divieti o le restrizioni. E odiava lo stato che si ciucciava una cospicua parte dei suoi introiti.

Quella sera la gente, come da accordi, era stata convogliata nel suo Club.

Fiero nella sua stanzetta con i vetri oscurati rimirava imbambolato cosce e minigonne più corte del solito.

Ormai rimaneva poca concorrenza e quelli che potevano dedicarsi serenamente a quel tipo di attività di solito intascavano dei bei soldoni. Più soldi uguale più gente. Più gente uguale più soldoni e minigonne. Si ritrovò a gongolare mentre si beava delle sue frivole congetture.

La consolle era bollente attorniata dai soliti volti noti. Lì si poteva respirare l’aria di festa.

Mi esibivo con un Live set che avevo appena finito di assemblare. Si tratta una serie di “macchine” ed effetti che generano suoni e melodie sempre differenti. Per me era una sorta di ricerca della pietra filosofale.

Dosare i volumi, disegnare i suoni e scegliere strumentazione sempre all’avanguardia. Negli anni 80’ facevano ottima dance ma oggi il potenziale era praticamente illimitato. Si poteva conciliare la vecchia tecnologia alle nuove architetture e i risultati spesso lasciavano basiti.

Poi accadde.

Quella disgraziata si era come inceppata sul medesimo loop. Suonato e risuonato all’infinito fino a incastrarsi nelle profondità del cervello.

“Maledetta tre zero tre… l’avevo assemblata con le mie manine e lei mi lasciava a piedi nel momento del bisogno proprio come un amico poco leale”.

Non c’era verso di fargli cambiare il Pattern.

Continuava a stordire la platea con lo stesso arpeggio di basso.

Fu quando incominciò ad accendere e spegnere i tasti che si disegno nell’aria un grosso punto interrogativo.

Forse avevo semplicemente registrato delle automazioni senza ricordarmene o forse semplicemente era l’effetto dell’alcool che incominciava a darmi alla testa. Strano perché ero una che sapeva bene come gestirlo.

Per quella serata avrei intascato duecento sacchi. Non potevo permettere che qualcosa andasse storto.

A volte con il Live capitano degli imprevisti ma una cosa del genere non mi era mai successa.

Quell’affare avrebbe tranquillamente potuto rompersi a casa durante le lunghe sessioni di prova ma non poteva impazzire durante la “performance”. Di fronte a centinaia di persone tutte li per ascoltarlo.

Si trattava di musica elettronica ma non vi era praticamente nulla di scritto. Niente spartiti o appunti. Tutto veniva suonato rigorosamente Dub.

Ogni esecuzione risultava differente.

Quando suoni Live ti trovo a “giocare” in tempo reale con effetti, suoni e frequenze.

Vi è una lunga programmazione che precede ma ogni volta dal vivo si genera qualcosa di nuovo e inaspettato.

Una sorta di parto artistico proprio come avviene con certi dipinti.

Se non riproduci qualcosa ma lasci spazio all’immaginazione, per certo avrai in mente le dimensioni della tela e quali tubetti andrai ad utilizzare ma non puoi né conoscere la quantità di colore, né come andrai a mescerli tra loro con le pennellate.

Hai un’idea approssimativa del risultato ma i particolari si generano in corso d’opera.

Ero preparato a ogni genere d’imprevisto. Avevo una valigia piena di cavi e connettori.

Quello strano malfunzionamento però non rientrava nelle probabilità.

Forse mentre ero distratto qualche ballerino più allegro del solito mi aveva rovesciato inavvertitamente la bibita sul sinth. Perché allora non era umidiccio e appiccicoso?

Forse semplicemente avevano rovesciato qualcosa dentro al mio bicchiere! Era più plausibile.

Qualcosa doveva essere successo!

Per un addetto ai lavori lo spettacolo era alquanto bizzarro.

Il disappunto e la tensione mi assalirono e le gambe cominciarono a tremare.

Mi muovevo a scatti seguendo il frastuono come un fuscello in balia del vento.

Una sensazione di vuoto s’impadronì con prepotenza della mia mente.

Era come se il Synth mi stesse succhiando le energie vitali per intonare delle nuove melodie sconce e blasfeme.

I tasti pesati avevano preso a traballare come sospinti da dita invisibili mentre i filtri sfavillavano impazziti roteando avanti e indietro come un girello al parco giochi.

Quella mostruosità stava autogenerando improvvisi e fastidiosi fischi lungo la frequenza di taglio.

La gente per fortuna sembrava non accorgersene e continuava a godersi la nottata.

Onde di rumore bianco frusciavano nello spazio come un serpente a sonagli che sguazza tra le rocce.

Provai ad avvertire le persone circostanti in merito al fatto che qualcosa non stava andando per il verso giusto.

Accanto avevo un paio di ragazzine che flirtavano con il mio amico Ben.

Stava ridendo di gusto con l’aria sorniona e la fronte madida. Quando mi notò sicuramente si domandò come mai sfoggiassi quell’espressione impaurita. “Ti presento Zaia”, urlò sorridente per sovrastare il fracasso.

Anche lui non si era accorto di nulla.

“Ma la gente cosa diamine stava ascoltando?!”.

“Ragazzi, c’è qualcosa che non funziona!!”

“Il Synth è partito per la tangente”. Esclamai tentando di farmi udire al di sopra del frastuono.

“Prova a spegnerlo e a riaccenderlo, magari si riprende”. Suggerì Ben.

Purtroppo il Synth non voleva saperne. Sembrava animato di vita propria.

Mentre il volume saliva incontrollato le mie forze scemavano proporzionalmente in maniera logaritmica.

Ormai il suono stentoreo e vibrante copriva le batterie e la ritmica.

Il Synth intonava degli accordi ben precisi. Continuava a ripetere delle note con la distanza di tre toni. Era disarmonioso e creava una vera e propria illusione uditiva.

Un tappeto di pulsazioni profonde si adagiava sui fischioni delle alte frequenze.

Gli altoparlanti e l’intero impianto incominciarono a saturare.

La gente era frastornata.

C’era chi si allontanava e chi tappandosi le orecchie cercava una via di fuga.

I buttafuori non sapevano come comportarsi e in un batter d’occhio si trovarono difronte una folla di bisonti imbizzarriti.

Le piccole antilopi venivano calpestate da una carica inferocita.

Tentai di staccare la spina ma fu tutto inutile.

Led e tasti continuavano a rimanere accesi mentre sullo schermo a cristalli liquidi comparve uno smile arrabbiato.

Il volto di quell’essere amorfo. Tecnologia che si ribellava in maniera inaspettata infrangendo ogni regola dei suoi circuiti stampati.

Mi resi conto inorridito che la macchina agiva indisturbata senza essere connessa alla corrente!

Un’espressione di paura mi corrucciò la fronte quando mi accorsi che la macchinetta aveva appena inserito l’Overdrive. Un effetto che distorce e ingrassa il suono.

Per i profani, in quella situazione era un po’ come innescare una carica esplosiva.

Il suono crebbe in maniera esponenziale mentre l’aria incominciò a vibrare spostando polvere e piccoli oggetti.

Con le ultime energie balzai fuori dalla finestra giusto in tempo per vedere le casse esplodere con un boato fragoroso.

Prima si frantumarono tutte le vetrate, poi incominciarono a piovere dal soffitto pezzi di calcinaccio quasi fosse il giorno di Natale.

Il colpo era stato talmente intenso che le membrane dei bassi erano sbrindellate e I tweeter continuavano a ronzare solitari come uno stuolo di mosconi.

Nelle prime file di superstiti un gruppetto di sfortunati si era trovato di fronte alla colonna.

Avevano un’espressione disorientata forse anche per colpa delle sostanze che avevano assunto.

Ad alcuni il naso e le orecchie sanguinavano copiose.

Dopo anni di briciole, patatine, pop-corn, fumo, strattoni, dita unte e grassocce che lo palpavano fin nelle parti più intime, il sinth aveva finalmente aveva regolato i conti.

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