La solitudine dei numeri primi

Alice Della Rocca odiava la scuola di sci. Odiava la sveglia alle sette e mezzo del mattino anche nelle vacanze di Natale e suo padre che a colazione la fissava e sotto il tavolo faceva ballare la gamba nervosamente, come a dire su, sbrigati. Odiava la calzamaglia di lana che la pungeva sulle cosce, le moffole che non le lasciavano muovere le dita, il casco che le schiacciava le guance e puntava con il ferro sulla mandibola e poi quegli scarponi, sempre troppo stretti, che la facevano camminare come un gorilla.

“Allora, lo bevi o no questo latte?” la incalzò di nuovo suo padre.

Alice ingurgitò tre dita di latte bollente, che le bruciò prima la lingua, poi l’esofago e lo stomaco.

“Bene. E oggi fai vedere chi sei” le disse.

E chi sono?, pensò lei.

Poi la spinse fuori, mummificata nella tuta da sci verde, costellata di gagliardetti e delle scritte fluorescenti degli sponsor. A quell’ora faceva meno dieci gradi e il sole era solo un disco un po’ più grigio della nebbia che avvolgeva tutto. Alice sentiva il latte turbinare nello stomaco, mentre sprofondava nella neve con gli sci in spalla, che gli sci bisogna portarseli da soli, finchè non diventi talmente bravo che qualcuno li porta per te.

L’appuntamento era di fronte alla seggiovia alle otto e mezzo in punto, per l’apertura degli impianti. I compagni di Alice erano già lì, a formare una specie di cerchio, tutti uguali come soldatini, imbacuccati nella divisa e rattrappiti dal sonno e dal freddo. Puntavano i bastoncini nella neve e ci si appoggiavano sopra, ancorandoli alle ascelle. Con le braccia a penzoloni sembravano tanti spaventapasseri. Nessuno aveva voglia di parlare, men che meno Alice.

Suo padre le diede due colpi troppo forti sul casco, manco volesse piantarla nella neve.

“Stendili tutti. E ricorda: peso in avanti, capito? Peso-in-a-van-ti” le disse.

Peso in avanti, rispose l’eco nella tesa di Alice.

Poi lui si allontanò, soffiandosi tra le mani chiuse a coppa, lui che se ne sarebbe presto tornato al calduccio di casa a leggere il giornale. Due passi e la nebbia se lo inghiottì.

Alice lasciò cadere malamente gli sci a terra, che se suo padre l’avesse vista gliele avrebbe suonate lì, davanti a tutti. Prima di infilare gli scarponi negli attacchi, li battè sul fondo con il bastoncino, per far venir giù le zolle di neve appiccicate.

Le scappava già un po’. La sentiva spingere sulla vescica, come uno spillo conficcato dentro la pancia. Non ce l’avrebbe fatta nemmeno oggi, ne era sicura.

Sarà stato il latte, di sicuro fu il latte……..

Se la fece addosso. Non la pipì. Non solo. Alice si cagò addosso, alle nove in punto di una mattina di gennaio. Se la fece nelle mutande e nemmeno se ne accorse. Alemo finchè non sentì la voce di Eric che la chiamava, da un punto indefinito dentro il blocco di nebbia.

Il salto non fu poi tanto alto. Qualche metro, appena il tempo di sentire un po’ di vuoto allo stomaco e niente sotto i piedi. Dopodichè Alice era già faccia a terra, con gli sci per aria, piantati belli dritti, che avevano avuto la meglio sul perone.

Non sentì davvero male. Non sentì quasi nulla, a dire il vero. Solo la neve che le si era infilata sotto la sciarpa e dentro il casco e che bruciava a contatto con la pelle.

Quando i due gemelli erano ancora piccoli e Michela ne combinava una delle sue, come lanciarsi con il girello dalle scale oppure incastrarsi un pisello su per la narice, che poi bisognava portarla al pronto soccorso per farglielo estrarre con delle pinze speciali, il loro padre si rivolgeva sempre a Mattia, il primo ad aver visto la luce.

“Chissà che avete combinato dentro quella pancia” diceva. “Mi sa che a forza di dare calci a tua sorella le hai procurato qualche danno serio”.

Poi rideva, anche se non c’era niente da ridere.

Mattia guardava da sotto. Rideva pure lui e lasciava che le parole del papà gli filtrassero dentro per osmosi, senza capirle davvero.

La risata di papà si trasformò in un sorriso tirato quando, a ventisette mesi, Michela non spiccicava ancora una parola che fosse una. Nemmeno mamma o cacca o nanna o bau.

Nel caso Mattia non l’avesse già capito da solo che sua sorella aveva qualcosa di storto, ci pensarono i suoi compagni di classe a farglielo presente, ad esempio Simona Volterra, che quando in prima la maestra le disse Simona, questo mese sarai vicina di banco di Michela, si ribellò incrociando le braccia e disse io vicino a quella là non vi voglio stare.

Mattia aveva lasciato che Simona e la maestra litigassero per un po’ e poi aveva detto maestra, posso restarci io vicino a Michela. Tutti erano apparsi sollevati: quella là, Simona, la maestra. Tutti quanti a parte Mattia.

Poi, un mattino di gennaio, Riccardo Pelotti, quello con i capelli rossi e i labbroni da babbuino, si avvicinò al banco di Mattia.

“Senti, ha detto mia madre che ci puoi venire anche tu alla mia festa di compleanno” disse d’un fiato, guardando verso la lavagna.

“E anche lei” aggiunse indicando Michela che stava lisciando accuratamente la superficie del banco, neanche fosse stata un lenzuolo.

La faccia di Mattia prese a formicolare per l’emozione. Rispose grazie, ma Riccardo, levatosi il peso, si era già allontanato.

Si prenderà il pallone e non vorrà più darlo a nessuno, proprio come fa a scuola, pensava Mattia.

Guardò la gemella che aveva i suoi stessi occhi, il suo stesso naso, il suo stesso colore di capelli e un cervello da buttare e per la prima volta provò un odio autentico. Le prese la mano per attraversare il corso, perchè lì le macchine andavano forte. Fu mentre attraversavano che gli venne l’idea.

Cambiò direzione bruscamente, tirandosi dietro Michela per un braccio, ed entrò nel parco. Michela gli trotterellò dietro, sporcando i suoi stivaletti di scamosciato bianco nuovi nuovi nella fanghiglia.

Al parco non c’era nessuno. Con quel freddo la voglia di passeggiare sarebbe passata a chiunque.

“Michi, ascoltami bene” disse Mattia. “Mi stai ascoltando?”

Con Michela bisognava sempre accertarsi che quel suo stretto canale di comunicazione fosse aperto. Mattia attese un cenno del capo della sorella.

“Bene. Allora, io adesso devo andare via per un po’ okay? Però non sto via molto, solo mezz’oretta” le spiegò.

Non c’era motivo per dire la verità, tanto per Michela mezz’ora o un giorno intero faceva poca differenza.

“Tu stai seduta qui e mi aspetti” disse alla gemella.

Si allontanò di qualche passo, camminando all’indietro per continuare a guardarla ed assicurarsi che lei non lo seguisse.

Era a una quindicina di metri e Michela non lo guardava già più, tutta presa nel tentativo di staccare un bottone dal suo cappotto di lana.

 

da

La solitudine dei numeri primi

di Paolo Giordano

Mondadori Editore

 

La caduta di Alice dagli e l’abbandono della sorella da parte di Mattia sono due episodi che avranno conseguenze irreversibili e saranno il marchio impresso a fuoco nelle loro vite. Le loro esistenze, così profondamente segnate, si incroceranno e i due protagonisti si scopriranno strettamente uniti eppure invincibilmente divisi. Come quei numeri speciali, che i matematici chiamano primi gemelli: due numeri primi separati da un solo numero pari, vicini ma mai abbastanza per toccarsi davvero.

Questo romanzo è la storia dolorosa e commovente di Alice e Mattia e dei personaggi che li affiancano nel loro percorso. L’autore tocca con sguardo lucido e profondo una materia che brucia per le sue implicazioni emotive

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