Un piccolo assaggio

Abitavamo in un paesino dove tutto sembrava fatto di latte e le persone sembravano pesci. Senza spina dorsale nuotavano apparentemente felici senza una meta ben precisa. Coordinati in banchi viscidi e squamosi. “Una volta che li tiri fuori da quel liquido rischi di pungerti un dito o peggio”. Avevo sempre sostenuto.
Villonia è uno di quei posti dove non capita mai nulla. Tutto è programmato secondo schemi ben precisi e l’evento più mondano è la Sacra Messa che puntualmente si tiene ogni domenica. L’unica cosa che senti vibrare all’interno di quella bolla bianca sono le campane che rintoccano il giorno di festa e a quel punto tutti, all’apparenza candidi, nuotano verso l’ambrosia.
Quella notte decidemmo di fuggire.
Eravamo io, Amy e la mia Volvo e lo spirito selvaggio della notte che ci sospingeva complice sulle sue ali nero corvine, lungo un nastro d’asfalto ormai desolato.
La strada trasudava il calore del giorno, scemato insieme ad un piccolo sole deforme che rigurgitava in lontananza disgustose chiazze giallo vomito, ormai solo più visibili dal lunotto posteriore.
Villonia era ormai solo un ricordo lontano e noi proiettati verso Venere e i bagordi di questa notte d’improvvisata follia.
Il motore trottava e il vecchio contachilometri sembrava bollire ricordando gli orologi molli di Dalì. Era ricoperto dall’interno di macchie d’umidità e aveva la lancetta imballata sui centoventi chilometri.
Davanti a noi solo un lungo biscione scuro che si perdeva nel buio dell’orizzonte inesplorato e carico di aspettative.
Impaziente tagliavo stop e semafori rossi diretto verso il confine occidentale, ansioso di allontanarmi da quel bacino di quotidianità per giungere nell’imprevedibile grembo oceanico.
I finestrini lasciavano entrare folate di vento favonio e salsedine che scompigliavano le nostre chiome in una danza elettrica. Caos di chiome e libertà concettuale. Il cielo era buio. Quella notte eravamo noi i suoi due astri. Avevamo delle coordinate su un foglietto sgualcito e, impostato il navigatore, ci eravamo proiettati in quell’oscurità purificatrice.
Amy era visibilmente alterata. Sentivo la sua gioia che impregnava l’abitacolo fino a scaldare le membra sopite dall’abbondante mangiata. Come al solito lo stomaco mi brontolava.
Sua nonna penso mi avesse scambiato per un bidone dell’umido e ogni volta che passavo a trovarla era guerra aperta. Gnocchi, torte e dolci, tutti rigorosamente fatti in casa secondo tradizione, rischiavano di trascinarmi sul fondo insieme a tutti quei condimenti ipocalorici. Nessuna possibilità di resa.

“Era tanto che non ce la spassavamo fratellone… Da quando stai con quella megera non siamo più riusciti a trascorrere del tempo in sintonia. Ti sta plagiando e presto sarai quello che hai sempre odiato. Senza neanche accorgertene.” Sentenziò seriosa finalmente rivolgendomi la parola e distogliendomi da quello stato di trance indotto dal ronzio dei chilometri macinati.
“Mi manchi sai? Tutto mi manca di noi, compresi i battibecchi da checca isterica”, mi sussurrò dolcemente all’orecchio.
Il suo alito profumava di fragola e zucchero come quei vecchi cicles di una volta.
Per l’occasione si era messa uno dei “suoi” completini preferiti, rosso di passione con una scritta slavata a caratteri cubitali pitturata svogliatamente sul davanti: “Follow the white rabbit”.
Li confezionava con le sue manine e di solito le calzavano come una seconda pelle. La ciliegina sulla torta erano le due piccole punte di spillo che s’intravedevano sotto l’aderenza del tessuto di nylon. I riccioli biondi facevano da contrasto con tutto quel fuoco ed erano una delizia per i sensi.
Era davvero un angelo in carne ed ossa con quel suo fascino etereo e io mi sentivo al settimo cielo solo a starle seduto accanto.
Ultimamente preferivo la sua presenza a quella di qualsiasi altro essere umano ed animale. In realtà non sopportavo un granché le altre persone in questo periodo travagliato della mia esistenza. Preferivo starmene rintanato nel mio nido, ovattato e al sicuro da un mondo che in quei giorni aveva ben poco da offrirmi.
Lei mi ascoltava sempre attenta con pazienza e comprensione, doti di cui la maggior parte delle persone intorno a me sembravano essere carenti. Qualsiasi cosa le raccontassi, anche la più imbarazzante, sapeva sempre darmi il giusto consiglio e conosceva ogni sfaccettatura del mio carattere. Anche quelle più noiose, che però non sembravano infastidirla anzi per lei “Completavano il meraviglioso quadretto slavato di un giovane di periferia con un grande cuore”. Da un lato quell’affermazione un po’ mi turbava ma non l’avevo mai percepita come una reale minaccia.
Eravamo due individui autonomi, ognuno con il suo modo di essere, ma ci portavamo comunque un grande rispetto. Eravamo liberi di andare e venire senza stupidi vincoli che finiscono per rovinare puntualmente quell’alchimia.
In quel momento avrei solo desiderato tirare il freno a mano in quel luogo sperduto, accostare per poi strapparle di dosso i vestiti, avvinghiarla, distenderla sicura sui sedili e diventare con lei una cosa sola mentre continuavo a riempirmi i polmoni del suo odore di cui non ero mai sazio.
D’altro canto non volevo neanche intaccare quella bolla rosa di empatia che si era incendiata nell’abitacolo.
Quella notte era stata una sua idea. Quasi come ogni altra volta.
Aveva ricevuto l’invito da uno sconosciuto.
Erano tanti che spesso la fermavano con le scuse più banali anche solo per poterle rivolgere uno sguardo e avevo paura che fosse la solita fregatura. Almeno per me pensai.

Le avevano lasciato un pezzettino di simil pergamena con scritte sopra latitudine e longitudine, di un posto non troppo lontano dal nostro paese. Sembrava una vera e propria caccia al tesoro e a me come premio, bastava la sua compagnia.
Sosteneva si trattasse di un tipo bizzarro che con un grosso cilindro calato sul capo, aveva insistito perché prendesse quel foglio e seguisse le indicazioni la prima notte di luna piena.
Quella notte non c’era luna a causa delle soffici pecorelle che belavano in cielo, ma il meteo la dava per buona e i lupi avrebbero ululato alla loro regina in qualche altra parte della regione.
Lei ovviamente non si era lasciata sfuggire l’attimo. Atteso il giusto allineamento astrale, eravamo partiti senza remora alcuna.
“Ogni lasciata è persa”. Così continuava a ripetermi dal tempo delle medie. A volte sembrava un disco incantato ma a me faceva sorridere. Non s’immaginava che forse quella notte non sarebbe poi stata quella grande perdita.
La voce atona del telefonino indicava la nostra destinazione a poche miglia.
Ad un tratto, ci ordinò di svoltare sulla prima stradina sterrata sulla sinistra e cosi facemmo.
Percorsi alcuni chilometri costeggiando grossi alberi di pino marittimo, secolari e profumati, giungemmo in un piazzale illuminato a stento da un lampione che a intermittenza lasciava posto al buio e ai grilli della campagna.

In un angolo un piccolo gruppetto di gente di fronte ad una lunga fila di bagni chimici! Proprio quelli plastificati che montavano ai concerti. Piuttosto inusuale come panorama per quel posto dimenticato da Dio.
Ci guardammo sconcertati per poi scoppiare in una fragorosa risata. Adoravo sentirla ridere in quel modo. Quelle vibrazioni, in contrasto con le campane di Villonia, mi facevano bene allo spirito e a volte ero io stesso a mettermi in ridicolo per poterne gioire quasi si trattasse di balsamo miracoloso.
“Dove cazzo siamo finiti?” “Sembra un ritrovo di scambisti…”. Scoppiamo di nuovo a ridere come due scemi.
Le persone lì davanti non saranno state più di una decina e si guardavano intorno con fare guardingo come se fossero alla ricerca di qualcuno o qualcosa, frutto del loro desiderio.
Nonostante le abbondanti risate non si erano accorti del nostro arrivo così riuscimmo a spegnere i fari per decidere sul da farsi.
Avevano un aspetto trasandato e dei vestiti che non mi sarei messo addosso neanche il giorno di carnevale. Non sembravano delle cattive persone ma visibilmente preoccupati e scuri in volto continuavano a fumare e a girare in tondo. Qualcuno imprecava, mentre altri discutevano animatamente.
“Molto probabile abbiamo sbagliato strada. Avremmo dovuto continuare ancora qualche miglio sullo stradone…”

Confusi, eravamo quasi per rimetterci in marcia, quando Amy decise di usare uno dei bagni!
Le sue ottime idee erano proverbiali e ormai ci avevo fatto il callo, facendo solo più finta di opporre una strenua resistenza all’assurdità ormai già impiattata.
“Scusa ma non puoi farla all’aria aperta? Siamo in mezzo alla campagna. Chi vuoi che ti veda? Quei cessi sono sporchi e chissà da quanto tempo sono lì”, le mormorai con una punta di ribrezzo.
“Hai ragione ma così ho anche modo di capire se per caso c’è la possibilità che questi zulù sappiano qualcosa della serata. Magari si sono persi anche loro!”. Chi non faceva parte della cerchia delle sue amicizie più strette era per definizione uno zulù.
Purtroppo non riuscii ad elaborare una valida teoria per trattenerla nell’abitacolo.
Appena scesa attirò subito l’attenzione come un fiotto di sangue dentro una vasca di squali. Si diresse decisa e ancheggiante verso il bagno più lontano dal gruppo senza battere ciglio.
Quello che capitò in seguito non potrò mai dimenticarlo.
Con le sue mani esili bianco latte spinse il maniglione del wc e rimase pietrificata tanto che pensai stesse guardando ammutolita il cadavere di una persona.
Dentro il bagno non vi era la normale tazza in metallo che qualsiasi cristiano si sarebbe aspettato di trovare. Da quella cabina non usciva alcun olezzo tipico di quelle latrine, ma prendeva forma uno stretto corridoio non visibile all’esterno e che s’innestava nella parete plastificata per poi immergersi nelle profondità materne del suolo.
Amy resto qualche attimo a fissare perplessa proprio come si guarda un vecchio compagno delle elementari con cui gli anni non sono stati troppo clementi. Ad un tratto il suo viso lasciò lo spazio ad un’espressione più compita decisa e maliziosa. Mi rivolse un cenno e quando si accorse che avevo adocchiato l’ingresso proprio come gli altri presenti entrò con passo deciso.
Scesi lesto dalla macchina. Non ricordo neanche se chiusi lo sportello tanto ero esaltato dalla scoperta e rincorsi Amy verso la prospettiva di quel mistero. A ruota seguirono i poveri disgraziati che come un gruppo di cornacchie finalmente sembravano aver trovato il cadavere da spolpare.
Il corridoio che seguiva era di solida roccia, liscio al tatto, odoroso di erba appena tagliata e benzina.
Eravamo fieri alla testa del manipolo e camminammo per diverso tempo.
Quel luogo trasmetteva uno strano senso di sicurezza. Mi sentivo come rintanato nelle viscere della terra lontano da qualsiasi persona sgradita in un posto dove nessuno anche volendo avrebbe potuto trovarci. Mi ricordava un po’ casa mia. E quello che contava di più è che eravamo io e lei. Per mano. Ogni tanto si voltava compiaciuta e io mi scioglievo davanti a quei dentini bianchi. Mi parlava sorridendo con tono cospiratorio come se non avesse mai rivelato ad anima viva quelle informazioni. Era dolce e buffa allo stesso tempo.
L’oscurità opprimente era squarciata unicamente dalle luci bluastre dei cellulari utilizzati come torce. Il vociare rimbombava mesto e tutti sembravano parlare di quanto fosse strano e assurdo quello che stava capitando.
Non mi meravigliavo che fosse stata proprio Amy a varcare per prima la soglia. Con lei si capitolava spesso in situazioni al limite della normalità. Se esisteva realmente una normalità che poteva essere descritta e presa a campione. Una volta eravamo rimasti chiusi per un’intera notte dentro a parco Guell, il famoso parco sulla collina dove si trova la villa di Antoni Gaudì, ma questa è un’altra storia…
Incominciò a fare caldo mentre la roccia trasudava e si ricopriva di quella che ad un primo esame pareva della muffa.
Acqua.
Il lento sgocciolio dal soffitto e il rumore degli scrosci in lontananza ci lasciò dedurre che ci trovassimo sotto un corso d’acqua corrente, se non addirittura sotto all’Oceano.
L’euforia si era moltiplicata all’avvicinarsi della meta e proprio come quei cani da tartufo fiutavamo tutti l’approssimarsi dell’uscita.
Una testa pelata con diversi tatuaggi in bella mostra ci domandò con fare baldanzoso se avessimo d’accendere. Non poteva pazientemente aspettare l’aria aperta per riempirsi i polmoni di fumo. Nel migliore dei casi avrebbe finito presto per intossicare tutta la comitiva. Sempre se quel liquido sulle pareti non era combustibile.
Cingendo Amy con un braccio riflettei sulla strada che avremmo dovuto ripercorrere come gamberi nel caso non avessimo scorto l’uscita, mentre un velo d’ansia m’imperlava il viso.
All’eco delle voci si sostituì quello che sembrava un cuore pulsante che martellava ritmico e ci guidava sistematicamente verso l’aria fresca. Rassicurati lasciammo spazio all’ilarità che si diffuse contagiosa ammorbando le facce in sorrisi malcelati.
Giunti all’esterno scoppiamo a ridere di felicità ed eccitazione anche se lo spettacolo che si presentava innanzi a noi non aveva nulla di rassicurante, anzi si trattava di qualcosa che io percepivo come alieno e a cui non riuscivo a dare una spiegazione prettamente terrena. All’inizio mi apparse come una sorta di ricostruzione storica iperrealistica ma poi mi resi conto dell’imponenza di quella struttura ancestrale e dell’energia che emanava all’esterno.
Sotto un cielo puntinato da miriadi di stelle, al centro di una grossa radura si ergeva un cerchio di grosse pietre megalitiche. Erano illuminate da vividi fasci di luce che originavano dalla base e mettevano in risalto le venature rocciose. Ricordavano in maniera piuttosto inquietante quelle del cerchio di Stonehenge e se non fosse stato per la logica che a tratti balzellava, avrei certo pensato di rimirare quegli antichi architravi di roccia aliena.
A semicerchio intorno alle pietre, appesi come grappoli d’uva, erano piazzati dei diffusori acustici dalle fattezze improbabili.
Oltre cento persone danzavano frenetiche al centro di quei megaliti.

Una voce da baritono ci distolse da quella visione idilliaca e alcuni omaccioni si intromisero con fare aggressivo tra noi e quel paradiso artificiale.
“C’è una sola regola per poter accedere all’osservatorio”.
Estrasse una manona e porse a ciascuno un piccolo bottone. Guardando bene notammo che si trattava di pastiglie diverse per forma e colore. Presumibilmente si trattava di qualche sostanza psicotropa.
Amy aveva nel palmo una capsula grigia fosforescente, mentre a me era toccata una pastiglia rotonda di colore verde sbiadito con una specie di “Y” stampigliata sul fronte.
All’inizio lo presi per uno scherzo di cattivo gusto. Non capivo se l’uomo ci stava sorridendo o se semplicemente era la sua mascella ballerina che prendeva l’iniziativa giocandogli dei brutti scherzi. Optai per il sorriso d’incoraggiamento al fine d’invogliarci a inghiottire quei misteriosi regali.
Amy ed io restammo di stucco. Ci scambiammo un’occhiata per poi renderci conto che effettivamente le persone erano allineate d’avanti e dietro di noi, e una volta ingollata l’ostia si dirigevano libere e con passo felino verso il centro nevralgico del ritrovo.
Quel bestione non stava affatto scherzando! Qualche volta mi era capitato di fare qualche esperienza del genere, ma quel frangente non aveva nulla di spensierato.

Lessi negli occhi di Amy un velo di paura e rassegnazione, mentre senza pensarci troppo si portava alle labbra la pillola. Per tornare indietro ormai era tardi. Avrei potuto approfittare dell’oscurità per nascondere la pastiglia sotto alla lingua.
“Vedrai che ce la spasseremo” mi promise solennemente la mia compagna di avventure.
Mi feci coraggio ed introdussi a malavoglia quel dischetto odoroso nel mio cavo orale deciso a sputarlo appena quegli energumeni avessero distolto lo sguardo.
Purtroppo non feci in tempo ad attuare il mio stratagemma. La pastiglia infatti si sciolse appena entrò in contatto con il calore della mia bocca. Provai a sputare senza essere visto ma non ottenni il risultato che desideravo. In bocca oramai non avevo più nulla.
Decisi di pensionare il cervello e cercare di divertirmi.
A pensarci bene ero in un posto magico con l’unica persona con cui avrei voluto essere. Ci avevano appena regalato delle sostanze per farci svagare come Dio comanda. Che cosa avrei potuto desiderare di più? Amy mi prese la mano e mi trascinò in mezzo alla selva di corpi frementi.
La musica era molto particolare e subito ci trovammo avvinghiati a ballare e a baciarci come due ragazzini vogliosi.
Era la prima volta che udivo quel tipo di sonorità. Si trattava di una sorta di canto tribale. Un canto della terra con un groove basilare e un kik imponente, interrotto a tratti da qualche melodiosa preghiera in formato digitale. Non riuscivo a scorgere né il dj, né la fonte che generava quella musica, ma sicuramente si trattava di qualcosa di unico e molto affascinante.
La massa brulicante danzava a ritmo in quel cerchio sacro, fuori dallo spazio e dal tempo. Parevano uno storno di uccelli sincronizzati. Un’onda spumeggiante che vorticava a ritmo cadenzato. Anche noi venimmo presto risucchiati in quel vortice di suoni e colori.
Una preghiera per degli dei ormai dimenticati o che ancora avevano da giungere, in quello spazio remoto, dove ogni essere manifestava la sua fede o la sua divinità attraverso una danza ininterrotta.
Quasi tutti prendevano parte a quel rito maestoso e potente. Chiunque giungeva in quel luogo non riusciva a rimanere indifferente. Ci eravamo mimetizzati nella folla di cui ormai facevamo parte. Carne, occhi e sudore per un sortilegio di strada.

Le persone erano di diverse etnie, tutte caratterizzate da qualche particolare ornamento o pettinatura. Sorridevano gioiosi, alcuni con le braccia al cielo come a voler ringraziare per quel momento di grande libertà e spensieratezza. Era possibile percepire le vibrazioni positive fin nel profondo dello spirito insieme a quelle fisiche, provenienti dal grosso impianto, che ti sconquassavano le budella.
L’impressione era quella che tutti fossero lì per ballare fino allo sfinimento. Fino a quando le loro membra non avessero ceduto. C’erano alcuni individui distesi beati e qualcun altro che cercava di comunicare. Operazione che risultava piuttosto complessa a causa del volume tellurico e dei diversi idiomi, come a Babele dopo l’ira di Dio.
Finii per sorridere imbarazzato ad un paio di belle ragazze seminude in risposta a delle parole incomprese.
Amy si era trasformata in un pesciolino rosso che nuotava nella sua barriera corallina, proprio come i vecchi abitanti di Villonia il nostro paesino, ma lì era felice, l’acqua era tiepida, cristallina, briosa e frizzante. Un’onda del mare che s’infrange sul bagnasciuga deserto. Lei stessa era quell’acqua corrente. Candida e inavvicinabile.
“Hai visto fratellone che dicevo il vero?” Mi gridò in un orecchio giuliva.

“Questo resterà negli annali e qui io e te diventiamo due spiriti inseparabili. Il cielo e la terra, il vento e i semi, l’alba e il tramonto. Non che prima fossimo qualcosa di differente, ma fidati! Roma ti stava succhiando la linfa. Io non le sono mai andata a genio. Mi ha sempre guardato come una piccola stracciona”. Sorrisi per la sua franchezza e pensai alla grossa capsula grigia che stava sortendo i suoi effetti.
“Fratellone” Ormai aveva incominciato a chiamarmi così e non avrei avuto alcuna chance di farla smettere. Continuavamo sbaciucchiarci come due liceali. “Andresti a prendermi qualcosa di fresco che sto quasi per liquefarmi?” Gridò nella mia direzione, tentando d’impietosirmi.
Adocchiavamo qua e là persone che sorseggiavano grossi cocktail con frutta fresca in bella mostra. “Sicuramente ci sarà un bar o qualcosa di simile, non penso che si siano messi a regalare sostanze e a fare beneficenza! O forse siamo finiti dritti dritti al vecchio oratorio”. Sorridemmo complici, ricordando i tempi che furono e divertiti ci demmo una punta. La baciai un’ultima volta, per poi avviarmi alla ricerca.
Farsi largo in mezzo alla folla era compito arduo. Ricevetti qualche colpo imprevisto ma non demorsi. Stremato, in lontananza scorsi un piccolo agglomerato di persone attorno a un bancone che poteva avere le fattezze di un bar. Dovevo raggiungere quel gruppo.
Forse a causa dello sforzo eccessivo fu proprio in quel frangente che iniziai a percepire una strana sensazione.
Era come se la mia soglia d’attenzione si fosse elevata in maniera spropositata e infingarda, portandomi all’occhio tutta una serie di particolari inquietanti.
In passato avevo fatto qualche esperienza psichedelica, ma nulla poteva essere lontanamente paragonato alla mistura diabolica che mi avevano costretto ad ingerire. Forse era anche colpa delle surreali condizioni ambientali in cui ero immerso, ma purtroppo non mi era possibile scindere le due cose, né comprendere la natura del pozzo viscido in cui ero scivolato nel giro di qualche ora.
Una serie di pensieri sgradevoli e taglienti incominciò a cozzare nella mia testa. Pensieri estranei alla mia mente e tutti irritanti. Anche riflettendoci sopra non sapevo carpirne l’origine. Pensieri che non mi appartenevano. Lontani anni luce dalla mia persona e dal mio modo di riflettere e ragionare.
Strane associazioni mentali ricamate sull’architettura dei miei ricordi più cupi. A ogni pensiero sgradevole veniva corrisposta una scarica di adrenalina che mi serrava la gola e mi tagliava il respiro proprio come a quei topi a cui viene data un’elettrostimolazione per indurli in qualche pratica. Qualcosa di molto difficile da descrivere a parole.
Era quasi come se qualcuno si stesse divertendo a scavare nei miei ricordi più vividi per ripropormeli in salse ributtanti e scadute da tempo. Non voglio neanche immaginare se quello stato mentale fosse perdurato a lungo nel tempo. Era un qualcosa di straziante. Arrivai addirittura a pensare che mi avessero somministrato del veleno a lento rilascio.
Ma per quale fottuto motivo farmi una cosa del genere?! Per portarmi via Amy?
Continuavo a duellare con la mia mente.
Si trattava di una sorta d’inquisizione spagnola dove mi sentivo colpevolizzato per una serie di eventi e situazioni a me cari. Qualcosa che non sarebbe mai riaffiorato alla mente con quelle fattezze in quella particolare situazione. Mi sentivo studiato, usato e preso in giro da forze a me estranee. Astruse congetture s’illuminavano come un lampeggiante ormai rotto.
All’inizio lo catalogai come un attacco di panico. Non ne avevo mai sofferto ma ne avevo già sentito parlare e dovevano essere davvero spiacevoli. Poi mi resi conto che si trattava di qualcosa di ben differente.

Un mare di assurdità tangibili mi assillavano senza sosta. Era come se qualcuno mi stesse giocando uno scherzo di cattivo gusto, fruendo a piene mani dei miei ricordi. Anche quelli belli, in cui cercavo un saldo appiglio, venivano rimossi e manipolati per poi essere associati a qualcosa di infimo.
Cercavo di non pensare a nulla ma era totalmente inutile arrestare quel flusso diabolico in tandem con le pene corporali. “Stream of consciousness” lo avrebbe chiamato il buon vecchio Joice, peccato che non fosse il mio!
La mia testa si era trasformata in un tramite cancellando la mia essenza. Rasentai la pazzia. Mi dimenticai completamente di tutto quello che mi circondava comprese le mie priorità, il mio modo di essere e parlare, la festa e infine stremato mi dimenticai anche di Amy stessa.
La musica era stata sostituita dalle voci dentro alla crapula e presto mi trovai lungo e disteso in mezzo a dei sacchi di pattumiera maleodorante. Intorno a me una moria d’insetti riversi al suolo denotava le condizioni nocive dell’ambiente circostante. Rovistai all’interno del pattume e ne estrassi una lunga corda di canapa che scambiai per un serpente velenoso che tentava di porre fine alle mie sofferenze.
Poi compresi cosa avevo tra le mani e fu allora che decisi di appendermi.
Non chiesi aiuto perché sarebbe stato tutto troppo lungo e complicato da spiegare e da mettere in pratica, tenendo conto che mettere insieme una frase compiuta mi richiedeva uno sforzo immane.
Mi attivai, iniziando una serie di lanci sfortunati sulle imponenti travature di pietra per originare una sorta di cappio rudimentale. Stavo talmente male che avevo incominciato a vibrare di tensione dalla mascella alla punta dei piedi. Ovviamente non riuscii nel mio intento così incomincia a vagare stralunato mentre un orrendo albeggiare schiariva quello scempio.
Ne dedussi che oltre alla cognizione dello spazio avevo anche perso quella del tempo. Non percepivo più il mio corpo, che sembrava prostrarsi a leggi a me oscure.
Quello che avevo conosciuto per trent’anni non era più reale e tangibile. O almeno quella era la percezione distorta che la mia mente cercava di rifilarmi in quel preciso istante.
Fossi stato più cauto… l’amore purtroppo a volte ti rende cieco.
Intorno a me vi era solo più pattume e gente orrenda che brancolava senza alcuna meta. Ogni tanto incappavo in un’altra entità smarrita che mi derideva o mi spingeva via in malo modo quasi fossi infetto. Facce allungate e distorte dal sole cocente e dall’arsura.
Di Amy e delle pietre non vi era più traccia e anche il ricordo si affievoliva lentamente come una candela che si consuma.
Raccolsi quei pochi granelli di lucidità per elaborare una sorta di piano.

Avrei raggiunto la macchina con le ultime forze a costo di trascinarmi sui gomiti come un lombrico calpestato. Una volta riposato avrei fatto ritorno in quel luogo e sicuramente avrei incontrato di nuovo la mia Amy, preoccupata ma felice di riabbracciarmi sano e salvo.
Le orecchie avevano incominciato a fischiarmi e una terribile emicrania mi stava incendiando il capo. Stavo per trasformarmi in un fuoco d’artificio scagliato in fiamme a rotta di collo verso l’orizzonte. Per uno strano caso fortuito incappai nel tunnel ormai ingovernato da cui eravamo giunti.
Decisi di ripercorrerlo in fretta e furia per cercare riparo dentro alla macchina. Quando (e se) mi fossi ripreso sarei tornato sui miei passi.
Non mi voltai a guardare e corsi all’impazzata nel buio più totale. Minuti, ore. Non saprei dire con esattezza quanto tempo trascorse. Avevo il cuore che martellava come una pressa a vapore quando finalmente giunsi alla latrina. Mi sentivo sporco, viscido ed avvilito per aver abbandonato l’unica ragione che mi aveva spinto verso quei nuovi orizzonti deliranti.
Fuori, come un’isola di salvezza sotto la vecchia quercia, scorsi la Volvo metallizzata.
Pensai che ero stato previdente a parcheggiarla nell’ombra delle frasche. Perlomeno non mi sarei sciolto al suo interno diventando tutt’uno con ingranaggi e pistoni. Vomitai più volte ma purtroppo non ebbe l’effetto liberatorio che mi sarei aspettato.
Volevo pregare per il fortuito ritrovamento, ma al posto delle parole mi uscivano versi scomposti e dopo l’accaduto, non avevo più la pallida idea del santo o del diavolo a cui rivolgermi, tanta era la confusione che avevo ingurgitato.
La macchina presto si trasformò nel rifugio sicuro e in una parte integrante del mio essere in cui cercai la pace dei sensi, asserragliandomi sui sedili posteriori e bloccando la sicura ancora in preda a panico e a visioni ipnagogiche.
Restai li diverse ore vagando con la mente e con il corpo. Cambiai diverse posizioni non trovando la quiete che cercavo e passai davanti e dietro almeno una decina di volte.
Sotto i sedili trovai una vecchia bottiglia di Whiskey, dimenticata lì da chissà quanto tempo. Fuori qualcuno osservava la scena stralunato e divertito senza domandarmi se avessi bisogno d’aiuto. Lasciato solo come un cane ero troppo preso dai miei pensieri ossessivi per potermene curare. Tremando come una foglia riuscii a rollare l’ultimo spinello rimasto e finalmente Morfeo mi graziò, accogliendomi tra le sue grosse braccia.

Dormii un sonno inquieto ricco di incubi e strane visioni che non avevano mai affollato la mia mente. Si ripresentarono puntuali quelle assurde associazioni mentali che in quello stato però erano più tollerabili.
Non so quanto tempo passai con gli occhi serrati in quella specie di dormiveglia ma quando li riaprii era ormai l’imbrunire, l’aria era gelida e le prime stelle timidamente stavano facendo capolino insieme al mio primo pensiero ricorrente. Amy.
Presi la bottiglia e ruppi il collo sul cruscotto. (Non so’ per quale motivo non svitai il tappo). Non badando alle schegge, bevvi solo esclusivamente per riacquistare un po’ del coraggio rubato, cercando di placare quel fuoco che mi stava consumando. Mi ferii il labbro, che copioso incominciò a colare sangue, ma in compenso riacquistai un po’ della lucidità di cui necessitavo per agire.
Uscii barcollante dal veicolo e mi diressi verso i bagni chimici. Intorno a me la desolazione.
Aprii di scatto il maniglione della cabina per ritrovarmi difronte al classico cesso in metallo. Nessun passaggio, nessun corridoio. Ero sicuro si trattasse di quello più esterno ma nonostante ciò li aprii tutti in un battibaleno lasciando le porte penzolanti. Nulla.
Era una semplice fila di bagni chimici senza alcun retropassaggio. Abbracciai la tazza sconsolato.
La disperazione si avvinghiò con unghie affilate ai miei polpacci trascinandomi supino in mezzo al campo e per un attimo mi immedesimai in uno di quei cessi, finto e pieno di sostanze nocive. Il pensiero si accompagnò a una specie di ennesimo attacco di panico. In realtà non saprei se prima arrivò la scarica di adrenalina o i folli vaneggiamenti.
La follia stava nuovamente prendendo il sopravvento e dovevo combatterla con tutte le mie forze.
Mi ero fidato della persona che più amavo e adesso stavo scontando un prezzo troppo alto.
In un sol giorno ero stato derubato di tutte le cose a cui tenevo di più senza sapere se avrei potuto riavere indietro qualche cosa.
Girai più volte intorno alla fila di bagni ma dietro schermavano solo un prato di erba e terra bruciacchiata.
Caddi nuovamente in ginocchio disperato. Impulsivamente afferrai il telefono per chiamare i soccorsi ma poi mi resi conto dell’assurdità della situazione. Nessuno avrebbe mai creduto alla mia storia.
Puzzavo, perdevo sangue dalla bocca e biascicavo parole senza senso. Mi avrebbero scambiato per un pazzo e forse in quel frangente avrebbero anche avuto ragione. Lanciai con rabbia il telefonino nel prato e ritornai alla macchina allontanandomi da quel luogo malefico.

La mia esistenza spensierata era stata troncata come il gambo di una rosa, insieme a tutti i miei sogni e alle mie prospettive future.
Mi era stata portata via ogni cosa. Anche la più preziosa.
Avevo percorso diversi chilometri e mentre guidavo guardai distrattamente prima il sedile vuoto accanto al mio scoppiando in un pianto angosciante e liberatorio e poi feci l’errore di rimirarmi nello specchietto retrovisore. I miei capelli castani erano diventati bianchi come il latte.

Anche lei candida, quella sera sopra lo stradone, la luna mi sorrideva maligna.

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