La casa del sonno

« “Allora, ascoltami attentamente,” disse, “perché bisognerà rispedirle già stasera, per espresso. Prima di tutto lo leggi parola per parola e controlli se ci sono refusi. E poi – mi senti bene? – poi devi togliere, chiaro, togliere la nota numero tre.” 

Terry scandiva le frasi più chiaro che poteva: sulla linea internazionale c’erano fruscii e crepitii. “La nota numero tre. De-ve-u-sci-re. Fal-la-fuo-ri. Via dal pezzo. Non serve. E’ leziosa e non aggiunge niente.”

“Okay,” disse Sarah. “E’ facile. Lo so fare, non c’è problema.”

“Sì, ma dopo controlla se hai fatto tutto come si deve,” disse Terry. “Perché poi devi numerare daccapo tutte le note. E devi assicurarti che corrispondano.”

“Terry, t’ho detto che lo faccio. Stai tranquillo.”

E qui Terry riappese, apparentemente rassicurato e farfugliando qualcosa su un impellente incontro a colazione con Marcello Mastroianni.

      Sarah andò a fare la spesa e aspettò il primo pomeriggio, quando sulla scrivania del soggiorno c’era la luce migliore. Si fece un caffè, tolse i fogli dalla busta e li sistemò ordinatamente avanti a sé. Le note di Terry erano su un foglio a parte: la terza era da eliminare e le successive da numerare daccapo, ma per il momento le mise da parte e decise di dare prima di tutto uno sguardo al testo dell’articolo vero e proprio (erano solo cinque pagine), rileggendolo con attenzione in cerca di eventuali errori di stampa o di sintassi. Si sbrigò in una ventina di minuti e poi tornò a una frase poco dopo l’inizio. “Chi avrebbe mai detto che,” scriveva Logan, “appena un anno fa sarei diventato il direttore organizzativo di un importante golf club con annesso centro ricreativo situato, pensate un po’, a un tiro di schioppo da quelli stessi studios? Eh sì, proprio a Teddington.”

Dopo la parola “Teddington” c’era un piccolo “3” in apice, che rimandava il lettore a una sobria nota esplicativa sul foglio a parte, dove si leggeva: “Placida e decorosa zona residenziale londinese in riva al Tamigi, poco più a sud di Richmond”. Era questa la nota che Terry voleva togliere. Non capiva perché volesse farlo proprio all’ultimo momento, ma doveva avere i suoi motivi. Barrò il piccolo “3” nel testo, lasciò a margine una chiara indicazione per il proto e cominciò a cambiare tutti i numeri successivi: il “4” diventò un “3”, il “5” diventò un “4” e così via.

Fino a quel momento non aveva toccato il foglio con le note. Il lavoro era facile e meccanico, e mentre procedeva l’appartamento era così tranquillo che si udiva la biro raschiare il foglio, e ognuno dei suoi delicati risucchi di caffè pareva una stridente intrusione in quel silenzio.

    Aveva appena cambiato l’ultimo numero da “16” a “15”quando ci fu un rumore dall’ingresso: avevano messo qualcosa nella buca della posta. Era tardi per il secondo giro, ma non eccessivamente. Andò a guardare e vide che sul pavimento c’era solo una lettera. Era una semplice busta bianca, affrancata come espresso ed era indirizzata a lei con una calligrafia che riconobbe subito per quella di Robert. Tremando, lacerò il lembo con l’indice e si mise a leggerla in piedi nell’ingresso.

    Non aveva più avuto notizie di Robert dal giorno che s’erano separati: Il giorno che lo aveva lasciato seduto in cima alla scogliera con le guance scorticate e gonfie per un bizzarro e non meglio precisato incidente avvenuto in piena notte in camera sua. Lui non l’aveva riaccompagnata fino alla casa, e un’ora dopo i genitori di Sarah erano arrivati e avevano portato via da Ashdown, per sempre, lei e tutte le sue cose.

     Da allora, niente.

     Due lettere indirizzate a Robert presso Ashdown erano rimaste senza risposta. Poi, sei o sette settimane dopo la fine della sessione, Sarah telefonò alla casa e un tizio dalla voce mai sentita prima le disse che Robert se n’era andato da più di un mese. Allora telefonò ai genitori: le dissero che era in vacanza in Europa, chissà dove, con l’Interrail. La volta successiva le diedero un indirizzo improbabile, in una città il cui nome non le diceva nulla, a più di trecento chilometri da Londra. Non c’era il telefono. Gli scrisse ma lui non rispose. Gli scrisse Terry e anche le sue lettere furono ignorate. Sarah rinunciò. Robert aveva detto che non voleva la sua amicizia, almeno per il momento. A quanto pare faceva sul serio. E lei non era disposta a compiere sforzi ulteriori.

     E adesso, questa lettera.

     Non le dava indirizzo ed era di un foglio soltanto, che aveva l’aria di essere stato scribacchiato in gran fretta. Era chiaro che quanto a notizie ne avrebbe ricavato ben poco.

      Diceva la lettera :

 

Cara Sarah,

            ad Ashdown si stava male. E’ stato uno sbaglio. Sono rimasto meno di una settimana. Troppi fantasmi.

            Poi sono stato un po’ dai miei. Litigate con mio padre (non siamo mai andati d’accordo) e intere giornate a letto. Era poco piacevole e allora ho provato a viaggiare. Ma niente da fare lo stesso.

 

Era irrecuperabile, pensò Sarah. Peggio che irrecuperabile. Ma almeno, il brano successivo era più lungo.

 

       Ti ho mai raccontato un sogno che ho fatto da bambino? Penso proprio di sì: fra una volta e l’altra ti ho detto tutto di me. Ero su una strada, una strada torrida e polverosa, e c’era una donna in uniforme da infermiera che indicava qualcosa in lontananza: un edificio, e io sapevo che era un ospedale. La donna era in piedi davanti a un cartello scritto in una lingua straniera.

Finalmente sono riuscito a capire il significato di questo sogno. Ho capito che cosa tentava di comunicarmi già da allora.

E adesso sono qui. Dal francobollo capirai suppergiù dove, ma per qualche tempo non mi farò vivo. Non mi troveresti di buona compagnia.

E per adesso, Sarah, questo è quanto. Però un giorno avrai di nuovo mie notizie. Te lo prometto. E spero che da qui ad allora ti vada tutto bene.

    Ti amo più che mai.

Robert

 

    “Ma che cosa diceva quella lettera?” le avrebbe chiesto Terry ogni volta.

    “Niente,” gli rispondeva Sarah. “Quasi niente. Non mi diceva né dov’era né che aveva in programma di fare… Niente.”

    “E poi che successe?”

    “Mah, mi pare che… Mi ricordo che andai in soggiorno con la lettera, mi sedetti da qualche parte e provai a rileggerla. Arrivata a metà cominciai a tremare e sentii che mi stava venendo quella cosa, solo che non ci potevo fare niente, e poi devo essere…boh, svenuta. Credo…”

     “Svenuta? Svenuta come?”

     “Te l’ho detto che ogni tanto mi succede. E’ come un mancamento, solo che resto cosciente: ma non ho nessuna forza nei muscoli e non mi posso muovere finché non passa… Mi capitò anche alla festa, ti ricordi?”

      “Lì eri ubriaca.”

      “Eravamo ubriachi tutti. Non ero ubriaca peggio di voialtri. Lo so come ti senti quando sei ubriaco, e questo è diverso: ti prostra completamente. E infatti quando finisce ho voglia innanzitutto di dormire.”

       Ed era questo che aveva fatto, pochi minuti dopo, lunga distesa sul divano con la lettera di Robert schiacciata sotto il corpo. Quel pomeriggio Sarah si addormentò e cominciò a sognare; e come gran parte dei sogni che la prendevano quando per qualche motivo era turbata o eccitata, anche questo s’ispirò ai fatti più vicini nel tempo. Sognò le correzioni all’articolo di Terry. Sognò, fatalmente sognò, di aver finito il lavoro. Sognò addirittura di averle controllate due volte. E così, quando poi (pochi minuti più tardi? e chi poteva dirlo?) riaprì gli occhi appannati, si rimise seduta, si guardò intorno, mise da parte la lettera di Robert e tornò alla scrivania, non degnò più d’uno sguardo i fogli prima d’infilarli nella busta già affrancata e completa d’indirizzo. La chiuse e corse ad imbucarla al marciapiede di fronte.

      Ma le note sul foglio a parte non erano state né corrette né rinumerate. E fu così che involontariamente il discorso conviviale di Henry Logan provocò nientemeno che sette cause per diffamazione, ebbe un effetto devastante sulla carriera di Terry ed entrò per sempre nella leggenda del giornalismo come “il pezzo che fece chiudere Frame“.

da 

La casa del sonno

di Jonathan Coe

Feltrinelli Editore

Nei primi anni ottanta un gruppo di giovani studenti vive ad Ashdown, centenaria costruzione in pietra, abbarbicata in cima a uno scoglio a picco sull’oceano, la “casa del sonno”. Ashdown si rivela essere una sorta di castello dei destini incrociati. Gregory, iscritto alla facoltà di Medicina, ha una strana abitudine, se non quasi un’ossessione, e cioè quella di spiare il sonno altrui. Veronica, omosessuale e ultra-politicizzata, è appassionata di teatro. Terry è interessato al cinema e sogna di dirigere un film. Robert, al terzo anno di Lettere, trascorre gran parte del suo tempo scrivendo poesie d’amore per Sarah. Sarah è narcolettica, in un tempo e in un’epoca in cui la malattia era pressochè misconosciuta, e per anni viene trattata e curata come una paziente psichiatrica: nessuno comprende o giustifica i suoi vuoti di memoria o i suoi improvvisi svenimenti o i suoi bizzarri riferimenti a fatti mai accaduti di cui lei è fermamente convinta. 

Scienza e follia, omosessualità e amore, amicizia ed emarginazione. 

E sullo sfondo il mare, la scogliera, il profumo del sale e il rumore del vento.

Studio Medico Mens CPZ

CPZ dalla mente al cuore

Un pensiero riguardo “La casa del sonno

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