Nati: la quotidianità e la disattenzione

Una delle problematiche che sicuramente rende la mia vita esilarante è l’ADHD.
L’ADHD è la sindrome di iperattività e deficit di attenzione.
A livello comportamentale è quello che nella mia vita devo combattere di più.
Per le motivazioni che adesso vi espongo.
Punto primo: non riesco a rimanere focalizzata su un obiettivo.
Il mio cervello iperattivo è attratto da un sacco di cose e non si impegna davvero su niente, disperdendo potenzialità ed energie.
Inizio a fare un sacco di cose, per non concluderne alcuna. Questo implica che ho fatto e so fare un sacco di cose…male. Un mio amico mi ha suggerito di aprire un canale youtube chiamato “Credere di far bene sapendo di far male”, mentre mi cimento nelle mie mille imprese.
Punto secondo (sempre legato al fatto che non riesco a raggiungere un obiettivo): il mio cervello non ha minimamente idea di cosa sia la ricompensa.
E vi spiego meglio cosa significa.
La ricompensa è quella sensazione di benessere che voi, comuni mortali, provate quando portate a termine con successo un compito.  In termini scientifici, si chiama circuito di reward (ricompensa, appunto).
In previsione della ricompensa finale, che alimenta il circuito di reward, si intraprende un’azione e si persiste fino al conseguimento di questa. Quindi il momento del raggiungimento dell’obiettivo e la ricompensa coincidono.
Il mio cervello, invece, si disperde. Ciao obiettivo. Mi dimentico di tutta questa storia appena due minuti dopo, per passare ad altro. Chi se ne frega di quanta soddisfazione può dare arrivare ad un traguardo finale importante! Ciaone!
Col tempo, però, mi sono fatta furba e ho capito che se la ricompensa (e quindi la fine del “percorso” ) è più vicina (dal punto di vista temporale) al momento in cui ho deciso di iniziare a fare una cosa…allora è più probabile che io inizi e finisca la cosa. Per farla breve, se ho un feedback o un risultato subito…allora possibile che io inizi e finisca la balzana idea.
La scoperta di suddividere un compito che richiede molto tempo in piccoli passi con traguardi intermedi ha rivoluzionato la mia esistenza. A 35 anni. Con risvolti decisamente interessanti (di cui vi parlerò estesamente, ma non oggi!).
Punto terzo (ma non ultimo!): la difficoltà a concentrarmi, ad analizzare, organizzare e sintetizzare le informazioni fa diventare un qualsiasi sforzo intellettivo una montagna insormontabile.
Qualsiasi azione che mi richieda una o più d’una delle capacità sopracitate è uno scoglio dalle importanti proporzioni nella mia quotidianità. Che io procrastino, procrastino, procrastino. Fino alla noia.
Non vi dico le capriole dell’ultimo minuto che faccio fare alle persone iper-pazienti che lavorano con me a questo blog, per pubblicarlo nell’orario e nel giorno prestabilito.

E se raggiungimenti di obiettivi e soddisfazioni personali sono una nota dolentissima nella mia esistenza, tuttavia la quotidianità con un cervello che non riesce ad impilare più di due informazioni mi regala tanta tanta ilarità.
Che m’appresto a condividere.
Perchè, ricordate, la malattia mentale è vera (ed esilarante) solo se condivisa.

Tra le molte cose che faccio ce n’è sopratutto una: boicottare i colloqui.
Lo faccio con una facilità estrema, quasi imbarazzante. Per una ditta interinale cannai talmente tanti di quei colloqui, che la direttrice di filiale volle conoscermi personalmente.
Ma comunque…tempo fa feci un colloquio di lavoro per un’azienda fighissima del Torinese.
Androne ampio, tutto tirato a lucido. Figuratevi il personale che ci lavorava.
Mi accolse, infatti, una signoria super professional.
Tacco, chignon, tailleur. “Prego”.
E io, appena uscita dal negozio delle millennials, con pantalone e caviglia scoperta, scarpette di ginnastica, magliettina rosa con i fiocchetti neri, ma comunque con un certo contegno, dissi, cercando di scandire bene le parole e non fare il solito mischione di vocali e consonanti: “ho un colloquio con la signorina Peretta”.
Calò il silenzio. Quel silenzio imbarazzato, incredulo, interrogativo che tanto conosco bene quando di solito proferisco parola.
Lei mi guardò. E gentile e con finta noncuranza mi fece: “La signorina Perretto delle Risorse Umane?”.
Bene. Ma non benissimo.
Risi volutamente briosa e, sperai, che la signorina vedesse in me almeno un velo di misterioso fascino sulla mia follia: “si, mi scusi. Silvia Perretto”.
Il sipario non si era ancora aperto sulla scena che io avevo già chiamato la ragazza con la quale avrei dovuto sostenere un colloquio di lavoro con il nome di un clistere.
Questa si che è proprio figura di merda! – pensai.
La ragazza, giovanissima, arrivò. Elegantissima e gentilissima anche lei. Mi portò nella saletta dei colloqui e mi porse un foglietto.
“Può gentilmente scrivere nome e cognome e mettere una firma nel riquadro a destra?”- mi chiese
“Certo!!” – dissi, col fare più gentile che riuscii a trovare. Mentre dentro di me pensai: “Nati, basta con le figuracce, concentrati!”. Me lo diceva sempre mia madre. Facendomi salire il nervoso.
Scrissi ‘sto foglietto e glielo porsi.
Lei guardò il foglio. Alzò gli occhi. Mi guardò di nuovo e riguardò il foglio. Poi mi fece:
“Scusi, ma lei non è Nathalie Manca?”
In quel momento, nonostante fossi vestita come una deficiente e l’avessi chiamata anche come il nome di un lassativo, ebbi pure la presunzione di pensare: “Ecco, la solita signorina Risorse Umane che non sa manco leggere!”
Così sospirai piano. Presi con sufficienza il foglietto. E lessi.
……
Se non avessi firmato accanto e riconosciuto la mia calligrafia, avrei pensato che mi stessero prendendo in giro.
Che ero su candid camera. E invece no. Accanto alla mia firma, in stampatello, nella facile, facilissima casella in cui c’era scritto NOME E COGNOME, e in cui dovevo solo scrivere il MIO nome e cognome, avevo scritto: PERRETTO CHIARA.
In quel momento, non sapevo cosa pensare. E cosa dire.
E PERRETTO ci stava pure, dai. Lapsus. Ma Chiara? Chiara? CHIARA? Da dove mi era uscito Chiara?
Mi chiedevano una laurea, la conoscenza di una lingua straniera, una preferibile seconda, la conoscenza del Project Management. Ed io avevo sbagliato Nome e Cognome. Subito dopo aver chiamato la ragazza di fronte a me “Peretta”.
Quel colloquio finì negli annali dell’azienda alle voci “colloqui di successo” e “brillante carriera”.

Qualche tempo dopo, infatti, incontrai il capo della povera Silvia. Che ridendomi in faccia mi disse: “ah, lei è quella Nathalie che ha chiamato Silvia Peretta?”.
“Si, lo sa anche lei?”.
“Difficile trovare in azienda qualcuno che non lo sappia”-mi disse.
Sentii vivida la colonna sonora di “momenti di gloria”, dentro di me, in quel momento.

Dunque, cerchiamo di trovare una morale a questi momenti di “piccole disattenzioni”.

Mi raccomando: ad un colloquio, cercate di essere tempestivi e ricordare al momento giusto il vostro nome e cognome. Se non le ricordate, venite qui al centro medico MENS CPZ, nel cuore di Torino, sotto la mole.
Vi aiuteremo a capire cosa succede.
E poi vi faremo prendere in giro nei prossimi anni!

E poi…diceva Cicerone, uno dei miei logorroici miti dei miei studi di letteratura latina: “quasi sempre dalla stessa fonte del riso, si possono trarre anche pensieri seri”.
Questa frase mi è sempre piaciuta così tanto, che ho chiesto al buon Marco Tullio di perdonarmi se a mio modo la cito così: “quasi sempre dalla stessa fonte dei pensieri seri, si può trarre il riso”.

A venerdì!
Chiara

 

 

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